A crederlo a quanto pare sono gli americani. E' quanto emerge da un'indagine Wine Merket Council che è andata ad indagare cosa delle etichette influenza le scelte e le sorprese non mancano

Scampato il pericolo di finire nella black list dei cibi e le bevande dannose per la salute e visti gli ottimi risultati dell’export con le bollicine che, ad esempio, si confermano molto forti nei mercati che da sempre sono tra i “top” delle nostre eccellenze enologiche a cominciare dagli Stati Uniti, è il caso di vedere cosa proprio gli statunitensi, vogliono trovare sulle etichette perché proprio quel vino sia quello decidono poi di acquistare.


L’indagine l’ha condotta Wine Market Council su oltre mille persone. Ed ecco quali informazioni vincono e quali perdono.

Ecco cosa gli americano guardano in etichetta, ma c’è un presupposto sbagliato: per quasi la metà nel vino ci sono zuccheri aggiunti e questo (che non è vero) non piace!

Informazioni nutrizionali ed ingredienti e il modo in cui vengono presentati in etichetta fanno al differenza. Ad esempio piace il fatto che il basso contenuto di zucchero sia indicato, mentre interessa poco l’indicazione di acido tartarico.
Un’indagine che ha fatto emergere anche strane convinzioni come ad esempio quella per cui molti americani credono che i vini siano carichi di zuccheri aggiungi. Una convinzione senza alcun fondamento, ma in cui crede ben il 47 per cento degli intervistati. Dato che scende se si parla di hard seltzer (36 per cento) e precipita se parliamo di birra (18 per cento).
Una scoperta che, sottolinea il direttore della ricerca Christian Miller, potrebbe cambiare l’opposizione dell’industria Usa all’etichettatura degli ingredienti. Un tema che ricorda tanto il famoso Nutriscore che ha fatto saltare letteralmente i nervi a tutto il mondo dell’enologia.

Altri dati emersi dall’indagine hanno atto emergere che la metà del campione ritiene che l’anidride solforosa sia un ingrediente negativo (l’acido tartarico viene visto negativamente dal 33 per cento). I nomi chimici inoltre non vanno bene, mentre l’espressione “concentrato d’uva” raccoglie un positivo il 61 per cento.

In mille hanno partecipato all’indagine sul “peso” delle etichette: ecco cosa piace e cosa no

La ricerca è stata condotta dividendo i mille soggetti in due tipologie: bevitori base e cioè quelli che bevono vino più di una volta a settimana; bevitori moderati che lo fanno meno di una volta alla settimana.
Persone per le metà laureate e soprattutto donne (il 60 per cento) suddivise in tre fasce di età: 21-39 anni, 40-59 anni e dai 60 anni in poi.

Agli intervistati è stato chiesto di valutare due ipotetiche etichette di vino e di indicare se si sentivano positivi, negativi o neutri riguardo all’elenco degli ingredienti presenti. Una prima etichetta A elencava “uva, lievito e anidride solforosa”. La seconda, la B, ne riportava otto “uva, concentrato d’uva, tannini di quercia, anidride solforosa, acido tartarico, pectinasi, lievito e coltura di batteri malolattici”. Solo il 13 percento degli intervistati ha considerato i “tannini di quercia” come qualcosa di negativo, un risultato basso considerando che, se elencati come ingrediente, probabilmente derivano dalla polvere di quercia aggiunta ai serbatoi.

Ai nativi digitali un’etichetta con il Qr code per sapere tutto del vino non dispiacerebbe affatto

“Gli effetti negativi dello zucchero sono principalmente legati all’aumento di peso, mentre le associazioni negative di SO2 sono collegate al mal di testa (per il 40 per cento più alto tra i bevitori di vino marginali, di bassa conoscenza e non di fascia alta) e, in misura minore, ai postumi di una sbornia – spiega Muller -. Anche i tannini parrebbero responsabili di emicrania per un 17 per cento, così come l’alcol per un 38 per cento è da correlare ai postumi di una sbornia”.

Stando alla stessa indagine le informazioni nutrizionali o sugli ingredienti presenti in un codice QR, che rappresenta l’orientamento delle normative dell’UE sull’etichettatura del vino, appare attraente per la generazione di consumatori più giovani (nativi digitali) e meno per i consumatori più anziani. Ciò ovviamente non sorprende: le persone con più di 60 anni non amano i codici QR, quelle sotto i 40 anni sono più propensi all’idea di utilizzo.

(Fonte Adnkronos)