Uno studio riscrive la storia della loro presenza in Sicilia, regione di cui, anche grazie al vino, fecero un punto nodale del commercio del tempo

Capire il valore di qualcosa pur non essendone assiduo consumatore: i musulmani quello del vino lo avevano capito già dall’antichità e così, quelli Siciliani, il vino no… non lo bevevano, ma ne fecero una vera e propria industria. E’ quello che si è scoperto attraverso un nuovo metodo di analisi dei residui d’uva contenuti in anfore risalenti all’epoca dell’invasione araba, quando la Sicilia, proprio grazie a loro, diventò il centro degli scambi nel Mediterraneo.

 

I musulmani nell’antichità? Grandi imprenditori… del vino non conoscevano il gusto, ma in quanto a fiuto… il naso era a dir poco sopraffino!

Una storia antica eppure così moderna! I musulmani di Sicilia, a quanto pare, pur se non bevitori, per ragioni religiose, avevano ben compreso il valore del vino e lo esportavano da Palermo fino anche alle terre cristiane. Un passaggio che vi chiediamo di ricordare per quando arriveremo alla fine di questo piccolo, ma interessante approfondimento.

La scoperta è arrivata da una ricerca fatta su anfore medievali, 109 per la precisione datate tra il V e l’XI secolo, trovate sull’isola e condotta dal team dell’università di York, quella romana di Tor Vergata e l’università di Catania.

Lo studio si basa, ha spiegato ad Archaeology, pubblicazione dell’Istituto di archeologia americano, Lea Dreu del dipartimento di Archeologia di York, su “nuovi test tecnici in grado di determinare se i residui nelle anfore fossero di uve o di altri frutti”. Le molecole individuate sono quindi risultate molto simili a quelle presenti nelle giare di ceramica usate di recente da diversi enologi che hanno riscoperto le potenzialità di fermentazione in vasi in ceramica.

 

Lo studio che ha dimostrato come nelle antiche anfore con cui i musulmani esportavano dalla Sicilia c’era proprio… il vino!

Queste quindi le premesse. Nello specifico quello che hanno fatto i ricercatori è stato estrarre i composti organici presenti nelle anfore. Poi hanno riempito di uva diverse copie dei vasi e le hanno sotterrate per un anno avviando di fatto la fermentazione. Al termine del periodo sono quindi stati in grado di fare un confronto tra antico e moderno. Lavorando sul rapporto tra acido tartarico e acido malico, in considerazione del fatto che questo rapporto è molto diverso nel vino rispetto a quello che si trova nella frutta fresca, si è quindi giunti alla conclusione che sì, quello che producevano ed esportavano i musulmani siciliani era proprio vino.

 

L’antico modo di saper fare impresa…

Hanno fatto di un business qualcosa che, si presume, sulle loro tavole non arrivava. E soprattutto hanno fatto della Sicilia il centro del commercio del tempo, tanto da essere tra le rotte commerciali più importanti insieme ad Alessandria D’Egitto. Una ricerca che, a ben guardare, fa sì che si possa rivedere il pregiudizio per cui troppo spesso oggi pensiamo all’Islam come un cultura chiusa confondendo troppo spesso la sua cultura con quella dell’estremismo che fa paura. Che non è così ce lo dice la storia e ora, anche il nettare di Bacco!

Secondo quanto riportato nello studio, i commercianti di vino islamici hanno sostanzialmente dato al vino del territorio un nuovo “marchio” (oggi diremmo brand) utilizzando un particolare tipo di anfora per fermentarlo e questo apre le porte a nuove scoperte proprio per scoprire quali erano, ai tempi, le rotte commerciali. Insomma proprio come un buon vino che evolve, anche la sua storia si modifica e potrebbe ridisegnare nuove geografie anche perché, è emerso, i musulmani islamici hanno da qui avviato anche il commercio di nuove colture, lo scambio di pesce salato, formaggio, spezie e zucchero.

Ci sembra giusto chiudere con le parole di Oliver Craig, a capo del centro BioArCh dove è stata condotta la ricerca: “ora che abbiamo un test rapido e affidabile per i prodotti a base di uva in contenitori di ceramica, sarà interessante indagare la storia più profonda, e persino la preistoria, di produzione e commercio di vino nel Mediterraneo”.

 

In Abruzzo le grandi anfore che richiamano quelle di uno dei 7 ‘grandi crus’ dell’Impero Romano rivivono e diventano ‘ambasciatrici’ del territorio

Ph: le anfore del progetto Hadria (Ansa)

Da anni, ormai, la vinificazione in anfora è tornata in auge. E per una storia che si riscopre, un’altra rinasce. L’ultimo esempio italiano, in ordine di tempo, arriva dall’Abruzzo dove i produttori locali di Atri, città teramana, hanno avviato il progetto “Hadria, città del vino in anfora”.  Quattro le aziende coinvolte: Vinum Hadrianum, Ausonia, Centorame e Cirelli che esporranno nella città alcune delle anfore di argilla realizzate a mano da maestri di Castelli, comune famoso nel mondo per la capacità di coltivare l’arte della ceramica.

Al suo interno ci saranno i loro vini. Un’esposizione che avverrà nelle sale delle cisterne romane del Palazzo Duchi Acquaviva con l’intento di omaggiare e arricchire l’offerta culturale della cittadina riconnettendo antico e moderno. E’ un auspicio che ci piace cogliere, in vista di una ripartenza di cui abbiamo bisogno.

Non dimentichiamo infatti che proprio ad Atri c’era uno dei sette “grandi crus” dell’Impero Romano (e diciamolo, in quanto a commercio i romani hanno decisamente segnato la storia). Vino che ovviamente invecchiava in pregiate anfore di argilla prodotte sul territorio e elogiate dallo stesso Plinio.

Insomma… la speranza è che chiunque possa andare ad ammirarle. Significherebbe una ritrovata normalità.