L'esplosione di Beirut è stato l'ennesimo dramma di questa comunità. La sterlina libanese è crollata e le cantine vivono grandissime difficoltà. Dare una mano ad un'antica terra di viticoltori è quasi un dovere, e la sua storia oggi, si arricchisce con una nuova scoperta!

L’esplosione di Beirut, in Libano, l’abbiamo ancora tutti negli occhi, così come quel boato che ha cancellato parte di una città straziata dalle urla dei sopravvissuti. Con un piccolo gesto ora, possiamo dare il nostro piccolo, ma importante contributo.

L’invito lo hanno lanciato e raccolto tantissime testate internazionale, nel nostro piccolo, con il nostro magazine, vogliamo farlo anche noi. E’ il tempo della resilienza e non solo per la pandemia. Comprare una bottiglia di vino libanese è un modo per dare una mano.

 

Comprare un vino libanese per sostenere le cantine e l’antica viticoltura di una terra in cui i calici affondano le radici in una storia antichissima!

Ph: vendemmia in libano, la foto Instagram della cantina Chateau Krefaya

Sono state 200 le persone uccise dalla terribile esplosione di Beiurt. Tra i feriti anche i proprietari della cantina Chateau Marsyas che aveva l’ufficio commerciale a soli 600 metri dal luogo della deflagrazione. Nonostante il dolore, il disastro di un intero Paese, si sono accorciati le maniche e due settimane dopo sono andati tra i filari dei loro vigneti nella valle della Bekaa e hanno iniziato la vendemmia.

Una striscia di terra difficile, tra la Siria e Israele, che fa i conti con problemi complessi. L’esplosione è solo l’ultimo dramma infilatosi in una crisi politica, il collasso economico, il blocco del Covid e i tanti disordini sociali. Problemi che hanno fatto crollare il valore della sterlina libanese, sceso dell’80%.

Eppure c’è voglia di resistere. C’è voglia di ricostruire e c’è voglia di andare avanti. Il vino, da sempre simbolo di condivisione, è un simbolo perfetto e anche l’elemento perfetto per far sentire la propria solidarietà. Lo spiegano bene le varie testate su cui abbiamo reperito la notizia. La svalutazione della moneta, ha detto Marc Hochar, la cui famiglia possiede la tenuta più famosa del paese, Chareau Musar, le cantine non hanno abbastanza soldi per importare bottiglie, etichette, tappi, trattori e tutto quanto può essere utile per proseguire l’attività. Inutile dire che le banche crediti non ne fanno.

L’unico modo per affrontare le difficoltà è quello di esportare. E sia chiaro: il vino libanese è un vino molto apprezzato e l’export è ciò che ancora tiene a galla l’economia vitivinicola di questo territorio, come ha dichiarato Elie Maamari che guida la cantina Chateau Ksara. “La salvezza”, la definisce. Di qui l’appello: compriamo vino libanese e diamo una mano ad una viticoltura vecchia 6 mila anni, la possibilità di continuare a regalarci i suoi rossi, i suoi bianchi e i suoi rosati.

 

Il vino del Libano è un vino di qualità ed è un vino antichissimo. Prima i cananei poi i fenici. E ora si scopre che la pigiatura avveniva anche a pochi passi dal mare!

Che qui la viticoltura è antica è un fatto. Che qui i vini siano buoni e apprezzati altrettanto tanto che su Bloomberg e The Guardian, per spingere all’acquisto, li hanno raccontati, descritti e consigliati. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi persino l’archeologia ci ha dato l’ennesima conferma.

Di pochi giorni fa, infatti, la scoperta di un torchio fenicio di 2.600 anni fa proprio a Tell el Burak, in terra libica. Siamo a 5 miglia dalla città di Sidone, sulla costa. La prova che il vino si produceva fin quasi in riva al mare. Un torchio, è stato detto da chi lo ha rinvenuto, “in uno straordinario stato di conservazione” a fatto di due bacini intonacati messi l’uno sull’altro. Secondo quanto è stato scoperto, l’uva veniva depositata nella prima vasca per essere pigiata. Un piccolo sbocco consentiva di far scivolare il succo nella vasca inferiore per essere poi raccolto in tini ed anfore per la fermentazione e, infine, il trasporto.

 

Il ritrovamento è l’incipit di una nuova storia…

Una scoperta solo all’inizio che ha entusiasmato gli archeologi. Sì perché come si legge nell’estratto dello studio pubblicato sulla rivista Antiquity “il suo notevole stato di conservazione consente uno studio sistematico del suo intonaco e un confronto con altre due installazioni intonacate nel sito”.

L’impianto è stato scoperto insieme a sei costruzioni e quasi certamente, ironia della sorte, vista la capacità di raccolta del bacino (1.200 galloni di mosto), la produzione cananea era quella destinata proprio all’esportazione. Inutile sottolineare il valore storiografico di una scoperta avvenuta proprio lì dove, prima dei fenici, vinificavano i produttori cananei. 

Hélène Sader, archeologa dell’università americana di Beirut e co-direttrice dello scavo, ha spiegato che al tempo dei fenici il vino era un importante oggetto commerciale, “ma la costa non è mai stata esaminata a fondo”. Quella che si apre, dunque è una nuova storia che deve ancora scrivere le sue pagine. Un’ipotesi è stata già avanzata: da Tell el-Burak, la città del Libano dove è stata fatta la scoperta, probabilmente, sono partite molte delle anfore rinvenute nei relitti recuperati nel Mediterraneo.