Edoardo Raspelli stronca i colleghi: "tutti markettari". Un'analisi costruttiva per giornalisti e ristoratori. A loro si raccomanda l'attinenza de La Carta dei Vini

Enogastronomia. Vi ricordate il cartone animato Ratatouille firmato Pixar? La sopravvivenza del ristorante dipendeva dal critico gastronomico Ego. Si legge con l’accento sulla o. Dubitiamo che la scelta del nome fosse casuale. Per scegliere di fare il critico, enogastronomico e non, ci vuole un certo ego e, soprattutto, tanta competenza. La seconda, d’altra parte, è ciò che permette al primo di diventare “cattivo”. Di saper parlar male di un posto dove si beve e si mangia male. E di fegato, in un certo senso, ce ne vuole. 

Ma il ruolo del critico, almeno in teoria, dovrebbe essere proprio quello. Esaltare o distruggere. E farlo sempre con il massimo dell’onestà. Per quello che potremmo definire il critico enogastronomico più importante d’Italia ciò non avviene più: l’Italia è un Paese di “marchettari“. Insomma. Si parla bene di tutti e se lo si faccia per cortesia o per altre ragioni conta poco. Qualche giorno fa Edoardo Raspelli non le ha mandate a dire ai colleghi della critica enogastronomica.

Qualcuno potrebbe dire che quella rilasciata a L’Inkiesta sia stata un’intervista al fulmicotone. In realtà, forse, è stata semplicemente diretta e onesta. Con chi se l’è presa? Giornalisti, consumatori, chef e sommelier. Fermo restando un punto fondamentale: i nostri sono i migliori ristoranti del mondo. Parola di un critico che ha recensito oltre 9mila ristoranti in 41 anni e che, attualmente, cura una rubrica enogastronomica su La Stampa e conduce il programma Mela Verde.

 

Enogastronomia. Punto primo: se la Carta dei Vini non corrisponde alla cantina la stroncatura è automatica.

enogastronomia - carta dei vini

Lo dice chiaro nella sua intervista Raspelli. Tra i dettagli che squalificano un ristorante c’è “la mancata corrispondenza tra la carta dei vini e la cantina”. Un problema di molti. Spesso anche dei ristoranti più quotati. Una cosa di cui però, fa capire Raspelli, mica tanto si parla. Si tende a compiacere insomma. E invece, per un cliente, questa mancata corrispondenza è letale. Figuriamoci per un critico che, di cantina, certamente ne sa. Non piace a nessuno trovarsi a chiedere un vino o un piatto (e su questo Raspelli è ancor più deciso) che poi in tavola non è in grado di arrivare.

Di qui la necessità di dinamizzare e rendere flessibile la propria cantina. Molti sono gli esempi di chi già lo ha fatto, soprattutto all’estero con lHKK che, ultimo nei tempi, ha optato per una Carta dei Vini interamente al calice. E tutta di ottimi vini. L’Italia in questo senso muove i suoi primi passi. Ma ha ragione Raspelli. Capita troppo spesso di sedersi. Ordinare un vino e sentirsi dire che è finito o che al momento non è disponibile.

Un passo falso che non ci si può più permettere perché, dice ancora il critico, se nel 1975 il consumo medio di vino era di 150 litri pro capite oggi è di 30. “Gli italiani beveno meno, ma con più attenzione”.

 

Enogastronomia. Punto secondo: smettiamola di fare i markettari con le penne e i fighi con le pentole.

Enogastronomia - edoardo raspelli

Per cantina e menù la responsabilità è tutta del ristorante. Ma sul come poi questo ne esca dalle penne dei critici e di come i piatti escano dalla sua cucina la responsabilità è altra. Dei giornalisti nel primo caso e degli chef nel secondo. E come se non bastasse di fronte ad una recensione negativa ci si trova a dover combattere con “cuochi e ristoratori permalosi e irriconoscenti. La mettono sempre sul personale”. Così sul personale che, racconta Raspelli, molti gli hanno addirittura tolto il saluto. Eppure fare il critico vuol dire questo. Parlar bene se c’è da dir bene e parlar male se c’è da dir mare. 

Sarà forse che il mondo enogastronomico si è così intrecciato nei suoi assi portanti che nessuno ha più il coraggio di dire male a nessuno? Secondo il critico de La Stampa senza alcun dubbio. “Che vuole – dice a L’Inkiesta – il giornalismo italiano è tutto una marketta. Per criticare un piatto servono esperienza, cultura e soprattutto palato. Ancora adesso, a differenza degli altri, se mi capita di mangiare in un ristorante pessimo lo scrivo”. A salvarsi, aggiunge, è solo Massimo Visintin impegnato sulla Cronaca di Milano del Corriere della Sera. 

E gli chef? Ammettiamolo Raspelli ammette ciò che la gran parte dei profani (non critici insomma) pensa di fronte ad un menù eccessivamente fantasioso. Cosa? Sicuramente “ma che vuol dire?”. “I cuochi troppo fantasiosi mi fanno perdere le staffe. Spesso in cucina prevale il cazzeggio, si cerca di soprendere. Ormai nei menù non è difficile imbattersi in piatti presentati come “aria di…”, “polvere di…”. E’ una terminologia insulsa e cretina”

 

Enogastronomia. Punto terzo: i media e i social sono importanti. Ma non siamo tutti critici enogastronomici.

Enogastronomia - recensioni online

Il nome lo fa eccome: Tripadvisor. Il portale più frequentato dai consumatori è aberrante per Raspelli. Non tutti possiamo essere critici e il fatto che chiunque possa stroncare un ristorante senza avere la competenza per farlo non riesce proprio a digerirlo. “I commenti su Tripadvisor? – tuona -. E’ il peggio che possa esistere. Se io scrivessi con un decimo della stessa virulenza mi porterebbero via anche le mutande”. In sostanza il monito è chiaro: ognuno si occupi del suo. 

Di buono però c’è che grazie ai new media, social, tv e tutto quanto ruoti intorno all’innovazione, cuochi e ristoratori capaci riescono a trovare spazio. Una cosa che “in Francia – ricorda Raspelli – esiste da anni”. Meglio tardi che mai in questo caso. Ben venga dunque l’esistenza dei tanti programmi enogastronomici che hanno finalmente sdognato dalla cucina gli chef. Tutto purché il boom mediatico non faccia perdere di vista ai professionisti del settore qual è il loro lavoro: proporre piatti e vini eccellenti agli avventori dei loro locali. 

 

Enogastronomia. Punto quarto: con la buona critica si esalterebbe meglio l’eccellenza italiana.

Enogastronomia - eccellenza italiana

Alla fine il discorso è questo: se non si ha il coraggio di parlar male sembrerà che tutto è fantastico. Ma tutto fantastico di certo non può essere. E allora forse avere il coraggio di mettere nero su bianco il “cattivo a tavola” sarebbe funzionale ad esaltare ciò che, al contrario è “eccellente a tavola”. Se ne guadagnerebbe in credibilità. E la credibilità, per un ristoratore, è tutto. Ancor più se parliamo dell’Italia. La nostra enogastronomia parla da sé e negli anni l’offerta e la qualità della ristorazione ha raggiunto altissimi livelli. E’ questo il punto da cui ripartire per Raspelli.

Sì perché i ristoranti italiani, lo dice chiaramente, sono i migliori del mondo. “Nel 1975 – racconta – non era difficile trovare un ristorante pessimo. Sapevo benissimo dove si mangiava male, dove i camerieri si pulivano le unghie e bestemmiavano durante il servizio. Dove i vini della casa sapevano di aceto. Oggi i nostri ristoranti sono i migliori al mondo. Si beve anche meglio”.

L’intervista di Raspelli è passata un po’ troppo in sordina. Forse perché chi avrebbe dovuto parlarne appartiene troppo spesso a quella cerchia di critici che lui definisce “markettari”. Ma a ben leggerla è probabilmente lo sprone giusto per capire che “criticare”, cioè esprimere un parere positivo o negativo, è il modo migliore per dare credibilità ai professionisti del settore e alla ristorazione italiana intesa come brand. 

Tornando al concetto di “critica” in questo caso ci sembra il caso di definirla “costruttiva”.

 

Clicca qui per leggere l’intervista di Raspelli rilasciata a L’inkiesta.

Crediti fotografici: foto in alto Bouvette – Flickr CC.