Una vigna sperimentale ha portato qui scienziati e produttori per prevenire i cambiamenti climatici. Sono 20 le aziende presenti e c'è tanta Italia in questo studio che cerca di "salvare" il nettare di Bacco

La viticoltura entra a gamba tesa nella lotta al cambiamento climatico e lo fa già da diversi anni. Non entreremo nel dibattito riguardo i dati scientifici. Quel che è certo è che la Terra trasformazioni ne ha vissute e se è vero che oggi si parla di aumento costante delle temperatura, per le produzioni la vita può non essere semplice.

Oggi gli strumenti consentono di arrivare preparati o, quantomeno, di lavorare in previsione di cambiamenti che modificheranno il clima nel nostro pianeta. In Israele c’è una vigna lì dove normalmente non immagineremmo di trovarla. E’ nel deserto del Negev, ed è qui che gli scienziati, supportati da professionisti del settore, cercano di capire se e come l’uva da vino può crescere in condizioni estreme. E’ stato il New York Times a raccontare questa storia ed è una di quelle storie che bisogna conoscere perché si sappia che al di là delle parole c’è chi le trasforma in fatti.

 

La viticoltura “estrema” di Mitzpe Ramon, dove il sol batte 300 giorni l’anno e le temperature toccano i 97 gradi

Ph: rivista israeliana Israele21c

Siamo a Mitzpe Ramon e da anni qui si porta avanti la ricerca. E le aziende vinicole che hanno deciso di partecipare allo studio proiettandosi nel futuro sono già una ventina. Sono circa 30 le varietà di uva coltivate in un deserto, quello del Negev, dove il sole batte 300 giorni l’anno e dove si possono toccare punte di 97 gradi il giorno e raggiungere temperature bassissime, fino al congelamento, di notte nei mesi invernali.

Non è di certo stato facile realizzare dei vigneti da queste parti, ma grazie a reti che fanno ombra, tralicci che crescono in modo da limitare l’esposizione al sole, sensori che misurano l’umidità del suolo e termocamere che tracciano l’assorbimento della luce solare da parte di uva e foglie, alla fine il vino è diventato realtà. E in fondo non è poi così strano. Da queste parti, infatti, l’agricoltura è praticata dai Nabatei, popoli arabi nomadi, sin dal IV secolo a.C.. Grazie a delle piccole dighe di pietra sono stati loro i primi a portare il verde lussureggiante da queste parti e produrre il nettare di Bacco.

Agricoltura riuscita a fiorire ancor di più negli anni ’40 grazie all’inventore polacco israeliano Simcha Blass che ha aperto la strada ai moderni sistemi di irrigazione a goccia oggi utilizzati ovunque.

Quello degli scienziati è dunque un “ritorno” con uno scopo ben preciso: andare incontro alle esigenze dei produttori di tutto il mondo alle prese con eventi eccezionali ormai da anni tra episodi di siccità e alluvioni incontrollati.

 

Parte dal deserto israeliano del Negev lo studio che cerca di dare risposte alla viticoltura mondiale e, in particolare, a quella europea

“Produciamo di più con meno, questo è il nostro obiettivo”. Lo dichiara al New York Times Nafrali Lazarovitch, scienziato del suolo al Blaiustein Institutes of Desert Research nel Negev. E c’è tanta Italia in questo deserto italiano. Sono stati tanti gli scienziati e i proprietari di vigenti di Francia, Italia, Slovenia e altre parti d’Europa arrivati da queste parti per capire come le colture possano adattarsi all’imprevedibilità del clima. Tra questo c’è anche Enrico Peterlunger, professore di viticoltura all’Università di Udine. E d’altra parte il via al progetto è arrivato nel 2014 grazie alla società israeliana di irrigazione Netafim e il sostegno dei governi italiano e israeliano.

“I coltivatori sono preoccupati per i cambiamenti climatici in Europa”, spiega bene al prestigioso quotidiano americano Peterlunger che ricorda proprio quanto accaduto negli ultimi mesi nella sua regione: il Friuli Venezia Giulia. Un maggio piovoso che non ah permesso alle viti di fiorire e un’estate torrida. Condizioni che di certo non fanno benissimo alla maturazione delle viti. E d’altra parte meglio non è andata in Germania, Belgio e Paesi Bassi e nella mitica regione di Bordeaux dove il caldo, quest’anno ha raggiunto temperature record.

 

Nelle vigne del Negev viti monitorate 24 ore su 24 e tecniche che permettono di ridurre il consumo dell’acqua del 20%

Lo studio influenzerà la produzione del vino in tutto il mondo perché i cambiamenti climatici riguardano tutto il Pianeta. Ne è convinto un altro degli studiosi presenti a Negev: il professor Aaron Fait, professore di biochimica all’Università Ben-Gurion.

Ma cosa stanno facendo in questa oasi nel deserto in relazione alla viticoltura? Uva e altre colture come cetrioli, pomodorini e melanzane e persino fragole maturano in grandi serre monitorate costantemente. Gli scienziati stanno infatti testando con delle telecamere la crescita delle piante a cominciare dalle viti. Ce ne sono alcune che osservano le radici delle piante per misurare i livelli di biossido di carbonio, fertilizzanti e salinità. E la notizia è che le tecniche di pacciamatura si può ridurre il consumo di acqua del 20%.

Cos’è la pacciamatura? Ve lo spieghiamo noi. E’ una tecnica usata in agricoltura e nel giardinaggio che consiste nel coprire il terreno con uno strato di materiale che impedisce la crescita di erbacce e mantiene umido il terrone proteggendolo dall’erosione e quindi anche dalla pioggia così che non si formi la cosiddetta crosta di superficie. In sostanza il terreno non subisce grandi variazione e anche se farà storcere un po’ il naso agli ambientalisti, il materiale utilizzato è la plastica che, a quanto pare, è un isolante perfetto e impedisce anche l’evaporazione.

 

Non è solo questione di clima: capire come cambierà la viticoltura vuol dire far sì che l’agricoltura non soccomba ai cambiamenti della società

Perché questa vigna ha un valore speciale? Perché, lo ricorda il New York Times, il 40% della superficie terrestre è costituita da terre aride fatte di foreste tropicali, savane e deserti in cui vivono 2 miliardi e mezzo di persone. A minacciare questi habitat estremi non è solo i cambiamenti climatici, ma anche l’abuso dell’uomo che sta esaurendo le risorse necessarie a vivere sul Pianeta Terra senza contare che l’abbandono dei terreni ne determina spesso l’improduttività.

E’ accaduto anche da queste parti ed è bene ricordarlo. A farlo è Ofer Guy, ricercatore agricolo nel centro di Ramat Negev. Negli anni ’50 il 70% della popolazione israeliana, infatti, lavorava in agricoltura, oggi è il 2%.

Fare l’agricoltore oggi, aggiunge Guy, è un po’ come essere un giocatore d’azzardo, “non hai alcuna garanzia. Ma se nessuno promuove le aziende agricole tra 10 – 20 anni nessuno vorrà fare questo mesteiere. C’è molto potenziale di cooperazione – sottolinea – e c’è molto da imparare da noi e molto ancora da imparare”.

E allora facciamo nostre le parole rilasciate al New York Times da Eran Raz, che ha lasciato la carriera cinematografica per produrre vino. Si è trasferito nel Negev è ha dato inizio alla sua nuova avventura: “nessuna grande storia è mai nata con l’insalata”.