La battaglia linguistica parte da Rosèxpo. Dare identità a questa tipologia di vino è fondamentale per renderlo competitivo in un mercato che guarda solo alla declinazione e l'etichetta in francese

Non chiamatelo vino rosè nè rosato. Snobbato per anni, il vino “rosa”, è così che si chiede sia chiamato, vive ormai una seconda vita. Quella del riconoscimento, finalmente, del suo valore e della sua qualità. Se per troppo tempo è stato visto come un vino di seconda fascia, quello che poteva piacere a chi di vino non si intendeva, oggi il suo colore e il suo sapore stanno finalmente ottendendo il riconoscimento dovuto: quello dell’identità.

 E l’identità, per essere tale, parte proprio dalla forza del proprio nome. Il vino prodotto con uve rosse deve chiamarsi “rosa” e non rosè nè tantomeno rosato. E’ la battaglia linguistica avviata nel corso di Rosèxpo, la manifestazione leccese organizzata da deGusto Salento, l’associazione di produttori di Negramaro promotrice dell’evento.

Insomma, se il cinema ci ha regalto “la guerra dei Roses”, il calice ci propone quella dei “rosa”.

vino rosè

 

Il no al vino rosè: l’identità è “rosa” ed è quella di chi da secoli lo produce

La questione non è tanto sul fatto che rosè non possa essere un termine identificativo. Il problema è nel fatto che Rosè non è un termine italiano. “L’obiettivo – si specifica in una note – è infatti quello di ridare il giusto termine al vino e di porre fine allo scimmiottare francese con un languido Rosè oppure con il participio passato di un verbo che non esiste, l’abusato Rosato.

La volontà è quella di “recuperare l’italianità raccontando l’unicità delle storie di famiglia o di campagna che si celano dietro le etichette e prendere coscienza del valore dei propri prodotti”.

 

Il no al vino rosè: una cabina di regia in “rosa” è necessaria per la competitività

E il valore dei prodotti non può che passare per un riconoscimento di qualità che si esprime anche in termini di prezzo. “I rosati francesi – è infatti stato ricordato – escono in media a 48 dollari a bottiglia negli Usa. Gli italiani a 18″. Se la qualità c’è, insomma, il riconoscimento manca. 

A dimostrarlo è stata anche la rivista Wine Spectator su cui la giornalista Laura Donadoni ha pubblicato un servizio sui vini rosati. Su 12 etichette il 90% sono francesi. Il resto spagnole. Istituire una cabina di regia – prosegue la nota uscita da Rosèxpo – e lavorare per una promozione strategica e condivisa che punti al consolidamento e al posizionamento del brand del vino italiano all’estero diventa quasi una emergenza commerciale” . In Francia accade. E’ questa  la chiave per la competitivià.

Il discorso vale anche per la comunicazione. Basti pensare che quel #rosè è riuscito, negli Usa, a creare un brand! Peccato lo abbia fatto aiutando i cugini francesi.

 

Il no al vino rosè, ma rosa ha il suo ambasciatore: il senatore Dario Stefàno

A sostenere l’esigenza di affermare con forza l’identità del vino rosa è anche il senatore Dario Stefàno. Durante il Rosèxpo è stato infatti nominato Ambasciatore del vino Rosato (non dovrebbe essere rosa?).

Riconoscimento datogli per “l’impegno che da assessore alle politiche agroalimentari della Regione Puglia prima e da senatore poi, non ha mai fatto mancare il suo sostegno alla promozione dei rosati”. Meglio dire…rosa!