Un articolo di Forbes fa il punto sul vino italiano in America. Non solo colossi. La biodiversità piace. Le piccole regioni con la loro qualità trovano spazio nelle winelist dei ristoranti. Una lezione da imparare

Paradoxa! Dicevano i latini. Il vino italiano vive un gran bel paradosso. Uno di quelli che andrebbe analizzato a fondo per capirne le motivazioni. Noi siamo quelli del “siamo i migliori, ma fanno meglio gli altri”. Una sorta di bipolarismo dell’autostima che va dall’egocentrismo alla sua assoluta mancanza in un attimo. Accade così che alla consapevolezza di avere un patrimonio enologico unico già solo per biodiversità, si contrappone la difficoltà di diffondere la cultura del vino nel senso più profondo del termine.

Sarà anche questione di campanilismi e dell’ormai arcinota difficoltà di fare sistema (definizione tanto usata da essersi trasformata più in un modo di dire che in una reale volontà), ma se nelle Carte dei Vini degli States il Magliocco calabrese, tanto per citarne uno, c’è e in quelle italiane si fa più fatica a trovarlo un motivo ci sarà.

La riflessione prende le mosse da un interessante articolo apparso pochi giorni fa sulla rivista Forbes. A firmarlo Brian Freedman che ci spiega quanto sia mutata la percezione del vino italiano in America, quanto stia cambiando la sua presenza ne le Carte dei Vini e il perché spesso, ed è questo il titolo dell’articolo, “i vini italiani più emozionanti provengono da luoghi meno conosciuti”. Quanto meno per gli americani. Un’analisi dettagliata con interventi di titolari di importanti locali americani e un elenco di vini e anche di cantine che, a quanto pare, stanno conquistando sempre più gli statunitensi. Millennials in testa. E non sempre sono quelle che ci si aspetterebbe di trovare. Non sono insomma soltanto quelle dal nome blasonato. 

 

Carta dei Vini: negli Usa gli italiani sono sempre più presenti in nome della biodiversità

 

carta dei vini biodiversita

 

 

Gli americani sono sempre più consapevoli di ciò che bevono. Può sembrare una banalità, ma non lo è. L’esempio riportato nell’articolo è lampante e riguarda proprio uno dei traini dell’export del vino italiano: il Prosecco. Come ben sottolinea Steve Wildy, responsabile del beverage per la famiglia Vetri e il Terrain Cafè di Philadelphia, prima si chiedeva un Prosecco. Oggi, invece, prima di ordinarlo si fanno domande sullo stile delle singole bottiglie di Prosecco presenti su Carta. “Ora che le persone hanno acquisito più familiarità con questo prodotto – ha aggiunto riferendosi al vino in generale – si sentono anche più a loro agio ad esplorare l’ignoto”.

Eh sì. Perché alla maggior conoscenza di ciò che era già noto, si è invece aggiunta una nuova tendenza: provare nuove cose e cioè assaporare vini quanto più diversi possibile. Lo stesso Wildy fa mea culpa: “dieci anni fa – ha infatti spiegato – quando abbiamo aperto creando una Carta dei Vini italiani il vocabolario dei consumatori e anche il mio era molto più limitato. Da allora la qualità è salita e di conseguenza anche la capacità dei ristoranti di vendere in larga scala il vino italiano”. Sono loro, insomma, i primi che vanno a caccia di denominazioni in regioni che fino a qualche tempo fa sarebbe stato davvero difficile trovare in un elenco di vini di un qualunque ristorante americano.

Toscana, Veneto e Piemonte rimangono sì capisaldi, ma non solo per le eccellenze conosciute. A loro si aggiungono Sicilia, Abruzzo, Marche, Puglia, Umbria, Alto Adige e Calabria.

 

Carta dei Vini: i giovanissimi sono quelli che hanno più voglia di provare vini “alternativi”

 

Carta dei vini millennials

 

Ci piace questa frase che Freedman scrive nel suo articolo: “il panorama del vino italiano è infinitamente più vario e più emozionante di quanto abbia fino ad ora immaginato”. Sì. In effetti lo è. Dovremmo forse imparare a sentirlo un po’, il nazionalismo. In questo dovremmo certamente imparare dagli americani. Mentre a casa nostra fatichiamo a dare un corpo unico alle nostre differenze enologiche, in America le amano già. E ad amarle sono soprattutto i giovanissimi.

Millennials che, stando a quanto riportato nell’articolo Forbes, “sono interessati al vino al di là delle regioni e gli stili tradizionali”. Lo afferma Timothy Buzinski, titolare di Artisian Wine Shop e direttore del settore beverage per il The Roudhouse di Terrence Brennan di Beacon, New York. Loro, dice, cercano la bevibilità e cercano soprattutto i vini naturali. Sarebbe questa una delle ragioni per cui i nostri vini in terra americana stanno vivendo un momento d’oro. L’altra è quella di un mercato più maturo. Quello americano dove gli enofili sono finalmente pronti a varcare i confini del conosciuto. 

Quali sono, dunque, i vini italiani che stanno sempre più trovando spazio nelle Carte dei Vini statunitensi? Ora ve lo diciamo.

 

Carta dei Vini: da nord a sud. I calici che piacciono agli americani sono strettamente territoriali

 

Carta dei Vini vigneto

 

I vini di Wildy

 

Le parole di Steve Wildy confermano il bel momento del Franciacorta. Nella sua Carta dei Vini, infatti, sembra proprio che le bollicine lombarde trovino sempre più spazio. Non solo. Nebbiolo di Valtellina, vino dell’Oltrepò Pavese e bianchi di Lugana rappresentano una bella fetta della lista. Anche la Calabria lo ha conquistato, con i vini frutto del Gaglioppo e per L’Acino, vino calabrese prodotto con rosso di Magliocco e bianco Mantonico. Magliocco, ed ecco un paradoxa, che in Italia si sta riscoprendo adesso grazie a qualcuno che ha deciso di esaltarne il valore creando per lui una vera e propria Accademia.

Nella sua lista anche tante Marche. Non solo Verdicchio, “una delle armi segrete dell’Italia”, ma anche rossi. “Piceno di Montepulciano e Sangiovese, come ad esempio il Rosso Piceno, rappresentano una buona parte dell’Italia Centrale”. E non manca la Lacrima di Morro d’Alba.

 

I vini di Buzinsky

 

Buzinski, invece, si è innamorato della Sicilia. L’uva Frappato, per lui, è tornata a splendere in produttori come Cos e Arianna Occhipinti, con il Cerasuolo Vittoria del primo che lo ha letteralmente conquistato. Tra le cantine che non possono mancare Firriato e Donnafugata. Ma nel suo cuore ci sono anche i vini dell’Etna. Tre le aziende che consiglia: Frank Cornelissen, Planeta e Tasca d’Almerita. E poi c’è il Marsala. Un vino, dice, “poco apprezzato da troppi”. E doveva dircelo un americano!

 

I vini di Freedman

 

Il lungo elenco lo completa Freedman che racconta, ad esempio, di un suo viaggio in Piemonte, nella zona del Roero. Qui, ammette, pensava che avrebbe bevuto soprattutto Arnais. E invece ha scoperto il “grande Nebbiolo di Roero”. A stupirlo sono stati anche il Negroamaro, il Primitivo e la Malvasia Bianca della nostra Puglia in particolare nelle bottiglie de Li Veli, Tenute Rubino e Due Palme. Vini che, dice, trovano sempre più espressività. 

L’Abruzzo nella sua Carta dei Vini è quello del Montepulciano di Masciarelli che sembra apprezzare anche per i suoi bianchi autoctoni. Non manca ovviamente il Prosecco che per lui parla la lingua di Masottina, Bisol e Adami con Zonin che sta facendo cose sempre più interessanti”. L‘Alto Adige per Freedman è ben rappresentato negli States da Muller-Thurgau, Kerner, Schiava e il Pinot Grigio. Altro vitigno che sta vivendo un momento d’oro e che ora è figlio di un’unica Doc nata tra polemiche e progetti. Pinot Grigio che per Freedman parla la lingua di molti produttori. In particolare di Nals Margreid, Abbazia di Novacella e Elena Walch “che stanno cambiando la percezione di una varietà molto malignata”

Ultimo della lista, non per importanza, un altro vino che vive un grande momento: l’umbro Sagrantino di Montefalco.  

Tutti vini che in Italia conosciamo sì bene, ma che spesso, almeno in alcuni casi, non godono di quella fama che meriterebbero. Potremmo fare noi mea culpa, e provare a comprendere una volta per tutte quanto la nostra eccellenza ci rappresenti. Il #MadeinItaly è tante cose. E’ anche il vino! E questo non è un paradoxa…è una irrefragabilis veritas come dice il Sommo Dante nelle sue egloghe latine!

 

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