Il Savagnin-Blanc è lo stesso di 900 anni fa, sull'Etna di vitigni minori ce n'erano ben 50 e una 15ina sono pronti ad essere riscopereti. E presto riassaporeremo vino deciamente archeologici

“Vini di reliquia” e non solo. Ogni giorno qualche coraggioso si impegna per riscoprire vitigni dimenticati e che possiamo o presto potremo, riassaporare. La voglia di scavare (letteralmente) nel passato, sta portando alla luce varietà dimenticate.

Di molte è iniziata la riscoperta e la coltivazione, di altre si scoprono ceppi che sembravano perduti e che, con fatica e passione, si cerca di riportare alla vita per produrre vini che sembravano non dover più essere versati nei calici e che invece sono pronti a vivere la loro seconda vita.

Quello che vi proponiamo oggi è un viaggio verso nuove scoperte che aprono nuovi scenari nella storia dell’enologia e l’Italia, in questo, è certamente protagonista.

 

L’ultima scoperta: in Francia e in Svizzera gli antichi romani il Savagnin – Blanc lo hanno portato almeno 900 anni fa

I romani la sapevano lunga e il vino, per loro, era un vero e proprio oggetto di culto. La vite l’hanno coltivata in lungo e in largo nel loro impero e oggi, a 900 anni di distanza, sembra che una di queste sia stata ritrovata. Parliamo del Savigin-Blanc e alcuni vitigni presenti in Francia e in Svizzera abbiano proprio 900 anni e che lì siano arrivati grazie ai romani.

E’ quanto sostiene un gruppo di ricercatori  dell’Università di York che lo studio l’ha pubblicato su Nature Plants. Una ricerca genomica condotta su 28 semi d’uva “archeologica” che ha portato alla scoperta che, sostengono, “sono strettamente legati ai vitigni dell’Europa occidentale utilizzati nella vinificazione“. Tra questi a sorprendere di più è stato quello trovato a Orléans. Un seme datato 1100 d.C. che corrisponde geneticamente, asseriscono con convinzione, al Savagnin Blanc “e rappresenta quindi la dimostrazione di 900 anni di riproduzione vegetativa senza interruzioni”. Sì perché il Savagnin è un vino “moderno” che, in realtà, si è scoperto ben più antico di quanto si immaginasse. Un vino bianco che nel nord della Francia e in alcuni Paesi dell’Europa centrale sta vivendo un momento d’oro. Beh, è esattamente lo stesso che veniva sorseggiato 900 anni fa!

Non solo. Un altro seme analizzato è risultato essere un vitigno anch’esso di epoca romana con un codice genetico molto simile a le varietà conosciute come Arvin e Amin. Seme che potrebbe anche avere legami, sostengono gli studiosi, anche con l’Humugne Blanc.

 

Mai sentito parlare del Grecomusc’? La sua coltivazione era stata dimenticata, ma grazie a due coraggiosi ora è un’eccellenza da riscoprire

Probabilmente del Grecomusc’ o Rovello Bianco, se siete appassionati, avete sentito parlare. Eppure questo vitigno da fine ottocento, quando era stato citato nel Catalogo dei nomi dei vitigni della Provincia di Avellino, aveva fatto perdere le sue tracce almeno fini ai primi anni del 2000. E’ stato infatti nel 2003 che un contadino, Peppino Beatrice, ha deciso di farsi carico di questo “fardello” e riscoprire uno di quei vitigni che un po’ come accadde per le “viti maritate” era probabilmente finito nel dimenticatorio perché poco conveniente economicamente a fronte della difficoltà della sua coltivazione.

Forse arrivando nella vigna non vi rendereste neanche subito conto di essere in un vigneto. La vite è in alto, sopra la vostra terra, tenacemente arrampicata su un albero da frutto che, con uno slancio e uno sforzo che solo la natura può concedere, si inerpica fino a legarsi all’albero successivo e così via. E’ la starsete, un tipo di impianto in cui tra una pianta e l’altra ci sono metri di distanza. Quanto bastava ad ogni famiglia per dedicarsi al proprio lavoro necessario solo per la sussistenza.

E’ in Irpinia che questa magia ancora oggi avviene. Ed è solo grazie alla volontà di Peppino e il sostegno del professore vignaiolo Sandro Leonardi che oggi non solo il Grecomusc’ non è scomparso, ma anzi nel 2014 è riuscito ad ottenere l’iscrizione nel Registro nazionale della varietà di vite dal ministero dell’Agricoltura. All’inizio si pensava fosse un clone del Greco di Tufo, ma così non era. Il Rovello Bianco ha una sua identità: pochi acini, una buccia ben più spessa della polpa che gli da un aspetto “moscio” a giustificazione del nome.

 

Vini di reliquia: li hanno chiamati così perché per ora esiste solo la loro vite, pronta a tornare a nuova vita

Pronti a degustare i “vini di reliquia”? Certo chi li sta riscoprendo lo dice chiaramente: arrivare a 2mila bottiglie sarebbe già un grande successo. Quel che è certo è che anche loro sono stati vittime della moda degli anni ’90: produrre tanto, dimenticando. E troppo spesso dimenticando la qualità.

Ci spostiamo in Sicilia e precisamente sull’Etna dove a farla da padroni sono il Nerello Mascalese e il Carricante. Ma davvero qui, dove la cultura mediterranea ha trovato la sua culla, ci sono solo queste due varietà? La risposta è ovvia: no. E a dimostrarlo è stato il dipartimento di agricoltura, alimentazione e ambiente dell’università di Catania che ha fatto un’approfondita ricerca scoprendo che di “vitigni reliquie” ne esistono una quindicina. Uno studio partito dall’analisi del Vertunno Etneo, testo dell’800 dell’abate Geremia che sull’Etna di uve coltivate, per varietà, ne contemplava una 50ina “minori”.  I quindici “sopravvissuti” non potranno essere vinificati in purezza, ma potrebbero diventare un elemento di ancor più forte identità dei vini del territorio portando nuova spinta anche all’enoturismo, da queste parti già un must, vista la crescente voglia, dei viaggiatori, di scoprire i territori attraverso le loro radici più forti. 

Prima però bisogna “iscriverli” per poter ricominciare a coltivarli. Le richieste, per produrre i “vini di reliquia”, già ci sono!