Il dna conferma: è questo il vitigno da cui la feudataria produceva il vino che utilizzò per "trattare". Lo stesso con cui, quasi certamente, il Papa revocò la scomunica all'imperatore Enrico IV nel corso della nota "umiliazione di Canossa"

A piedi nudi, in ginocchio, vestito solo di un saio e con il capo cosparso di cenere. Per tre giorni e tre notti, dal 25 al 27 gennaio, l’Imperatore Enrico IV attese, sotto una bufera di neve, che il castello di Canossa gli aprisse le porte per ottenere da Papa Gregorio VII l’annullamento della scomunica. Era il 1077. Ad aiutarlo proprio Matilde di Canossa, la feudataria così tanto vicina al Papa che, con l’aiuto del padrino dell’imperatore, l’abate di Cluny Ugo, fece sì che Enrico IV tornasse nelle grazie del pontefice.

Una vera e propria umiliazione che riportò la pace tra i due e che, molto probabilmente, fu sugellata da un calice di vino. Quale? Ovviamente quello coltivato nella tenuta della feudataria. Oggi, quel vino, ha un nome. O meglio lo ha il suo vitigno. Come accaduto nella sua travagliata storia proprio a questa varietà d’uva, non si tratta di un Sauvignon, ma di uno di quei vitigni che grazie ad alcuni temerari, non solo non è scomparso, ma vuole essere riscoperto: la Spergola! Il Dna lo dimostra e così, questa bacca bianca dell’Emilia Romagna che, ad oggi, occupa l’1% del territorio della provincia di Reggio Emilia, aggiunge un tassello importante alla sua memoria.

 

Spergola: grazie al Dna, questo vitigno autoctono riafferma la sua identità e il valore estrinseco della sua esistenza

 

spergola canossa

Ph: affresco raffigurante “l’umiliazione di Canossa”

Stando alla storia e forse un poco alla leggenda, pare che questo frizzantino bianco così leggero e gustoso, Papa Gregorio VII lo abbia conosciuto proprio grazie a Matilda di Canossa che lo utilizzava come vero e proprio strumento di pace. Fu proprio in questo periodo, quando la lotta per le investiture raggiunse l’apice, che ne fece omaggio al Papa. Secoli dopo fu la Granduchessa di Toscana, Bianca Capello moglie di Francesco I Medici ad annotarne il gusto: “buon vino di Scandiano, fresco e frizzante”. Era il 1580. Dobbiamo arrivare all’800 con Filippo Re che parla degli spumanti prodotti da questo vitigno. Ma da quel momento la sua geneaolgia si perde e per somiglianza inizia ad essere identificato con il Sauvignon.

La pace però, da Matilde di Canossa in poi, in questi luoghi si sanciva con il bianco prodotto dalla Spergola, forse il vitigno che più di ogni altro al mondo riesce a soportare la siccità abituato come a crescere proprio lì dove c’è il castello e it erreni sono ricchi di struttura, mineali, gesso, ricchi di sostanze, ma poveri d’acqua.

 

Lo studio e il valore di una grande scoperta

A ridargli identità, oggi, è stato il Dna. Il merito va all’Univestià di Bologna che ha consentito di risalire alla reale genaologia di questo vitigno antichissimio. Una ricerca iniziata nel 2004 quando proprio il Comune di Scandiano e le quattro cantine sociali del suo territorio, hanno deciso di promuovere uno studio biologico e gentico dell’uva autoctona per isolarne il gene. Una scommessa vinta quella della “Compagnia della Spergola”, nata nel 2011 proprio con l’intento di promuovere iniziative per la sua valorizzazione e la commercializzazione di questo patrimonio che, dopo essere di diritto entrato nel Catalogo nazionale della varietà delle viti e, di conseguenza, delle Doc Colli di Scandiano e Canossa e la Reggiano,  ora aggiunge un elemento storicamente rilevante al suo percorso di riscoperta.

Il primo passo sarà quello di presentare il “vino di Matilde di Canossa”, o meglio la scoperta che il suo vino era proprio frutto della Spergola, in Senato giovedì prossimo nella sala Nassyria alla presenza della senatrice Leana Pignedoli, relatrice del ddl sulla biodiversità, l’enologo Alberto Grasselli, il presidente dell?Osservatorio Agroalimentare Denis PAntini e il vice ministro alle politiche agricole Andrea Oliviero.