In origine erano tre. Oggi restano Enantio e Casetta. Lento ma inesorabile il recupero di questi vitigni autoctoni del Veneto e del Trentino. Sono loro la nostra identità.

Ci sono dei vitigni che hanno rischiato di scomparire che sono, in realtà, veri e proprio monumenti enologici: le Ambrusche. Pensare in grande non vuol dire dimenticare il piccolo. E’ proprio lì che, a volte, si nascono le eccellenze. Globalizzarsi ha significato troppo spesso disperdere il patrimonio. Anche quello vitivinicolo. Laddove vi è più facilità di guadagno e di gestione della vigna le crescite sono esponenziali. Un bene per l’enologia italiana. Su questo non c’è dubbio. Ma guardare solo con gli occhi del mercato, quello globale, può far perdere di vista il particolare. L’elemento di distinzione per intenderci. 

Sono 335 i vitigni autoctoni riconosciuti in Italia. Se pensiamo alle nostre eccellenze ci vengono in mente Sangiovese, Nebbiolo, Prosecco, Barbera, Montepulciano tanto per citarne alcuni. Ma la crescita esponenziale di alcuni vitigni va di pari passo con l’oblio, o quasi, di altri. I veri eroi, a volte, sono coloro che, quei vitigni decidono non solo di non perderli, ma di farne un punto di forza sfidando un mercato sempre più globale che cresce sì sui numeri, ma che chiede a gran voce il riaffermarsi dell’identità.

Vitigni da riscoprire

L’Italia è un Paese a grande vocazione enologica e al di là delle grandi Doc che vanno via via nascendo (con alcune che fanno anche paura), delle grandi e indiscutibili eccellenze e delle bollicine firmate Prosecco che fanno impazzire mezzo mondo anche a rischio di una prosechizzazione del territorio, alcune piccole grandi eccellenze vivono, sopravvivono e pian piano si riaffermano. Un aiuto, si spera, arriverà con le nuove norme previste dal  che proprio a questo patrimonio strizza l’occhio. 

Ma ben prima che questo venisse anche solo pensato c’era già chi, quelle eccellenze, le ha tutelate. E’ successo e sta succedendo con la Spergola. Succede e sta succedendo con le Ambrusche cui, pochi giorni fa, è stato dedicato, ad Avio, un convengo di grande interesse.

 

Ambrusche: il valore è nell’assenza di una “elle”.

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Non una perdita, ma una vera e propria assenza. Un’assenza che, paradossalmente, è sinonimo di identità. Siamo in Veneto e Trentino. Per la precisione nella Bassa Valagrina e nei boschi di Lessinia (nella foto). E’ qui che le Ambrusche, in origine tre oggi rimaste in due, vinificano. Lo fanno su un fazzoletto di terra che, ogni anno, nel solo Trentino, producono solo 50 mila bottiglie.

In parte, dunque, siamo nella terra del Lambrusco di Sorbara e il Lambrusco Maestri. Pochi sanno che siamo anche in quella del Lambrusco a foglia frastagliata e quello a Foja Tonda: l’Enantio e la Casetta. I due vitigni che, con tanta dedizione, poche decine di viticoltori hanno salvato dall’oblio.

In origine erano tre le specie dell’Ambrusca. A mancare all’appello è l’Ambruscone. Se state pensando che queste uve producano, come il nome potrebbe suggerire, vini frizzanti, vi sbagliate. La loro è un’antica storia che finalmente, grazie anche alla Fondazione Mach, si sta pian piano riscoprendo trovando riscontro anche nell’apprezzamento degli addetti ai lavori.

Resistenti al tempo e addirittura alla filossera queste uve sono giunte fino a noi continuando a produrre eccellenza in un luogo che, non a caso, è definito Terra dei Forti. Forti le uve, forti coloro che fanno di tutto per non disperderne eccellenza e significato.

 

Ambrusche: viti selvatiche ‘addomesticate’. L’Enantio emblema del connubio tra Veneto e Trentino.

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La classificazione della vite è un’operazione che si perde nella notte dei tempi. Certo è che la svolta arrivò nel I secolo Dopo Cristo quando Plinio il Vecchio decise di catalogarle. “La brusca hoc est vitis silvestris quod vocatur oenantium”. “La brusca è una vite selvatica chiamata Enantio”. Così scrive nel “Naturalis Historia” e da qui, sebbene fonti più antiche non manchino, iniziamo la storia di questo autoctono che per essere riconosciuto come tale ha atteso non poco. 

Nel tempo è divenuto “Lambrusco a foglia frastagliata”, ma forse questa definizione è stata un po’ la sua condanna per quella facilità di collegamento con il più ben noto Lambrusco. Solo nel 1992, su richiesta della provincia autonoma di Trento, l’Enantio ha ritrovato le sue radici. D’altra parte al di là della similarità fonica Lambrusco e Ambrusche sono due mondi paralleli. La prova definitiva è arrivata dal Dna grazie alla Fondazione MachSi ipotizza che i primi ad “addomesticarla”, almeno in parte, furono gli uomini del Neolitico. Parliamo di 6 mila – 7 mila anni fa. Parliamo quindi di un vero e proprio autoctono.

Ma è con la romanità che questo vitigno conosce la sua fortuna. Il nome deriverebbe da quello che i romani davano alla forma maschile del vitigno che per poter essere fecondato aveva bisogno del polline “orientale“. I suoi fiori venivano essiccati per fare un infuso con il vino bianco che, pare, fosse anche afrodisiaco. Considerando i luoghi in cui cresce (Veneto e Trentino), la sua “purezza” genetica che ne fa un autoctono al 100%, questo vigneto potrebbe davvero diventare, se recuperato e soprattutto riscoperto dai più, l’emblema del connubio tra le due regioni. 

 

Ambrusche: l’Enantio è un monumento storico della viticoltura. 

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E’ sull’Enantio del Trentino che ci stiamo soffermando. Perché qui, questo vitigno, è un vero e proprio monumento storico nonostante in troppi se lo siano dimenticato. Non solo Plinio, ma anche Bacci che nella Storia naturale dei vini, nel 1596, cita “labrusca” dell’agro trentino: la vite da cui derivano i “vini enantini”. Ma a raccontarlo sono soprattutto il territorio e in particolare Avio. Corriamo lungo un lembo di terra che costeggia l’Adige. Lo chiamano Ischia, ma nulla ha a che fare per clima e caratteristiche, con l’omonima zona Campana. Qui, su 7mila ettari di terreno, si coltiva solo enantio. E quelle viti hanno oltre cento anni: sono le sopravvissute alla filossera.

Una magnificenza per gli occhi, un’emozione per il cuore. Pensare che queste viti che si è rischiato di dimenticare, sono riuscite a sopravvivere al flagello dei primi del ‘900 che sterminò praticamente tutta la viticoltura della zona, lascia capire quanto siano forti le sue radici e dura la loro corteccia. Un vero e proprio simbolo per la viticoltura tutta. Quella in grado di resistere al tempo, la natura e, addirittura, agli uomini.

 

Ambrusche: Il Casetta vuole la sua parte.

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Se è vero che l’Enantio è il simbolo delle Ambrusche e in un certo senso il simbolo stesso di questa particolare varietà di uve, è altrettanto vero che la sua storia non l’ha percorsa da solo. Laddove l’Ambruscone non ce l’ha fatta, con l’Enantio, a sfidare il tempo, è stato un altro vitigno della famiglia che, al di là del nome, non ha nulla a che vedere né col Lambrusco Veneto né con quello Emiliano. Parliamo del Casetta noto anche come Lambrusco a Foja Tonda

Neanche a dirlo la specie è veneta a trentina. Anticamente conosciuto anche come Maranela, sembra derivi il nome dal soprannome attribuito a una famiglia che lo coltivava in una frazione di Marani di Ala, in provincia di Trento. Quasi scomparso la sua sopravvivenza ha nome e cognome. Ne ha due a dire il vero. Tipico anche della zona veneta di Dolcè, Brentino Belluno e Rivoli, la sua riscoperta in terra trentina la si deve a due viticoltori: Albino Armani e Tiziano Tomasi rispettivamente a capo dell’omonima azienda il primo e di Cà Da Lora il secondo.

Nel 1990 furono loro a dar vita ad un progetto per lo studio della varietà e così fu. Ad oggi sono al massimo una quindicina gli ettari di terreno votati alla produzione di uva Casetta e di certo ai più resta sconosciuto. Ma la sua riscoperta c’è stata e continua, seppur lentamente. Grandi passi avanti sono stati fatti dall’abbandono che subì negli anni ’70 quando le sue piante furono sradicate per far spazio a varietà più richieste e dall’esclusione, purtroppo ancora in essere, dall’elenco dei vitigni nazionali autorizzati a causa della particolare sensibilità a malattie fungine. Se non fosse così, ad oggi, gli autoctoni italiani sarebbero 336.

 

Una piccola chicca:

A dimostrazione di quanto si stia facendo per recuperare l’identità delle Ambrusche c’è Vitae 2017. Per la prima volta la Guida Ais ha premiato un vino frutto di uva CAsetta. Si tratta dell’Albino Armani. Da provare no?

 

Crediti fotografici: terza foto dall’altro e foto copertina Flickr CC Barnyz.