Al Leccento 2015 dell'azienda piemontese il Trofeo per il miglior vino prodotto con uve indigene. Il riscatto del 'vino del mistero' riscoperto da un parroco e portato alla ribalta internazionale da pochi coraggiosi viticoltori

Il miglior vino prodotto con uve indigene? E’ italiano ed è una vera e propria chicca. Lo si dice spesso e a volte soltanto per moda, ma la realtà è che le piccole produzioni sono quelle che possono fare la differenza. Soprattutto quando sono testimoni della nostra grande biodiversità. Ed è ancor più bello sapere che sotto i riflettori della ribalta internazionale ci finisce, sempre più spesso, un vino ricavato da un vitigno che con il boom economico a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 si è rischiato di perdere per far spazio alla pura idea del profitto.

L’International Wine & Spirit Competiton (ISCW) ha assegnato i suoi riconoscimenti. L’Italia ne ha ottenuti diversi. Tra questi il Trofeo per il miglior vino prodotto con uve indigene: il Ruché di Castagnole Monferrato Leccento 2015 di Montalbera.

Se non è un nome che vi suona familiare sappiate che se è vero che in Italia la sua diffusione si concentra soltanto su determinati territorio, quello di produzione e cioè il Piemonte in primis, all’estero è amatissimo soprattutto in Germania, Svizzera e Usa.

 

Ruché di Castagnole Monferrato montalbera

Ph: veduta dell’azienda Montalbera – Gallery aziendale

 

Ruché di Castagnole Monferrato: il ritorno alla vita del “vino del mistero”

 

E’ un vitigno di cui non si sa molto se non che in un lembo di terra confinato veniva coltivato sin da Medioevo. Le teorie sono tante. Secondo alcuni il nome lo prende dai primi vigneti coltivati vicino ad una chiesetta benedettina dedicata a San Roc (San Rocco) che però oggi non esiste più. Per altri il vitigno sarebbe arrivato nel XII secolo con i monaci cistercensi provenienti dalla Borgogna. Altri ancora ritengono che il nome abbia un’origine dialettale perché ruché, da queste parti, indica l’arroccamento della vigna ben esposta al solo. Quel che è certo è che non vi sono certezze.

Proprio per la difficoltà di risalire alla sua storia e alle sue origini tanto che nessuna teoria riesce ad essere accreditata più di un’altra, questo vitigno dal colore delicato, i profumi intriganti e il gusto morbido ed elegante, è stato definito il “vino del mistero”.

Già confinato in un territorio ridottissimo del Monferrato, il Ruché era praticamente scomparso agli inizi degli anni ’60. Qualche vite la si trovata tra i filari dei ben più noti Barbera e Grignolino. Fu la volontà di un parroco, Don Cauda, a riportarlo letteralmente alla luce. Nel 1964 trovò alcune sue viti nella piccola vigna della parrocchia. Lo vinificò e se ne innamorò! Tanto che, da bravo parroco di paese, lo offriva a tutti durante le feste paesane.

Socialità d’altri tempi fatta di condivisioni che affondano le radici direttamente nella terra. E’ così che alcuni vignaioli hanno ricominciato a coltivarlo trasformandolo in meno di 20 anni in una vera e propria risorsa per il territorio ottenendo così prima la Doc nel 1987 e, nel 2010, la Docg. E quest’ultimo passaggio deve certamente molto all’azienda Montalbera, uno dei simboli della sua diffusione internazionale. Quella che, nei giorni scorsi, con il suo Leccento si è aggiudicata il prestigioso risconoscimento dell’ISCW.

 

Ruché di Castagnole Monferrato: quel “vino di originalità sublime” che ha conquistato i severi giudici del premio internazionale

 

Sono una ventina i produttori del Ruché di Castagnole Monferrato e la media delle bottiglie prodotte è, ogni anno, di circa 650mila bottiglie. La sua produzione è consentita solo nei comuni di Castagnole Monferrato, Grana, Montemagno, Portacomaro, refrancore, Scurzolego e Viarigi.

Il Laccento è la scommessa dell’azienda Montalbera, forse la più rappresentativa di questo vitigno autoctono. E’ a questa bottiglia che il trofeo internazionale, che viene assegnato da 15 anni a vini prodotti con uve indigene meno note coltivate in un solo Paese, quella che, nel 2017, ha conquistato i giudici dell’ISCW. Un Ruché, tra l’altro, prodotto in purezza.

Le degustazioni sono tutte alla cieca ed è lasciando quell’alone di mistero che gli è proprio, che il Ruché si è aggiudicato il riconoscimento. “Un vino eccellente e caldo – così è stato definito – profumato e seducente al naso, con dolci sfumature di lamponi e un pizzico di chiodi di garofano. E’ meravigliosamente armonioso, intenso e gentile, morbido e setoso, delicato e molto raffinato”.

Una scommessa vinta insomma che, nota di cuoriosità, si è anche adattata al vegan con una bottiglia ad hoc!