Unico autoctono a bacca rossa del Lazio ha una storia antica che ha conquistati Papi e imperatori. Tra le prime Doc ha rischiato di sparire. Oggi, grazie alla volontà di un produttore, ha recuperato la sua memoria

Riscoprire il bello e il buono del nostro territorio vuol dire anche ridare valore ai vitigni dimenticati. O meglio quelli che hanno rischiato di sparire per sempre. Ci piace, ogni tanto, raccontarvi la memoria e la volontà di ritrovarla. Lo abbiamo fatto con la Spergola e le Ambrusche. Oggi lo facciamo con un vitigno a bacca rossa decisamente eccezionale.

Siamo nella valle dell’Aniene su una collina protetta dai Monti Ernici e i Monti Simbruini. E’ qui che sorge il borgo di Affile, fondato nel 1000 avanti cristo dagli Ernici e gli Equi e passato sotto la dominazione romana nel 133 Avanti Cristo. Furono loro a disboscare la collina perché lungo i suoi pendii si snodassero i vigneti.

Il nome del vitigno Cesanese d’Affile verrà proprio da questa scelta. “Cesae”, infatti, in latino vuol dire “luoghi dagli alberi tagliati”. Quello tra l’antica Roma e il vino è un rapporto profondo, ricco di significato che se nei baccanali trova la sua massima espressione estatica è nella quotidianità che ha saputo costruire solide radici.

 

Vitigni dimenticati, il Cesanese d’Affile: il vino amato da Papi e Imperatori.

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A coltivarle, per primi, quelle viti furono i veterani cui Roma, al momento del congedo, destinava appezzamenti di terreno per godere di quella che oggi chiameremmo meritata pensione. Secondo alcuni Plinio il Giovane nel libro XIV della Naturalis Historia si riferiva al Cesanese quando parlava del gruppo delle antiche Alveole. E che quel territorio fosse particolarmente apprezzato dagli imperatori prima e dai Papi lo testimonia la storia. Su quelle terre Nerone e Traiano vollero delle residenze. In quel quadrilatero si istituì la residenza ufficiale dei Papi: ad Anagni. Città che, tra l’altro, a quattro di loro diede i natali: Innocenzo III, Gregorio IX, Alessandro IV, Bonifacio VIII.

 

Vitigni dimenticati, il Cesanese d’Affile: il borgo e il suo vino, un amore fatto di storia e leggenda.

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L’inscindibile rapporto che Affile ha da sempre con la vite è testimoniato nelle raffigurazioni e nelle leggende. La sua diffusione nelle oggi note “quattro terre del Cesanese” sembra addirittura si tramandasse attraverso la dote. Si narra infatti che le donne di Affile, promesse spose ai giovani dei paesi limitrofi, portassero con loro delle barbatelle di Cesanese così che la vite attecchissi su terreni nuovi.

Simbolo del Comune è un aspide attorcigliato ad un ceppo di vite con i grappoli nerastri proprio come quelli prodotti da questo vitigno: l’unico autoctono a bacca rossa di tutto il Lazio.

In piazza Castellana, al centro del paese, sulla facciata di un palazzo è risalente una Madonna del vino risalente al 1600. Altra testimonianza di come, questo vino, attraverso i secoli, fosse diventato simbolo di una comunità intera.

 

Vitigni dimenticati, il Cesanese d’Affile: è lui uno dei primi vini a meritarsi la Doc.

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Una grandiosità e una diffusione che ai primi del ‘900 faceva contare 10mila quintali di uva Cesanese l’anno con 30 ettari di terreno destinati solo alla sua coltivazione. La storia si sa, a volte sa essere crudele. Sa dimenticare. E’ accaduto anche al Cesanese d’Affile che nonostante il riconoscimento della Doc nel 1973 (una delle prime in Italia) e la Medaglia d’oro a Parigi e Bruxelles ottenuta 40 anni prima, nel 1930, ha dal suo riconoscimento in poi conosciuto il declino. Un declino rapido e significativo. Molte vigne sono scomparse e il vino si è destinato al solo consumo familiare.

 

Vitigni dimenticati, il Cesanese d’Affile: quando il vino conquista la letteratura.

Pochi anni per dimenticare una storia lunga secoli. Una storia partita dall’antica Roma, sviluppatasi lungo tutto il Medio Evo e le epoche successive tanto da essere oggetto, nel 1700, dello Statuto Municipale che ne imponeva la tutela. Un editto che prevedeva “pene severissime a chiunque avesse avuto l’ardire di recare danno alle vigne, sia per mano d’uomo che per tramite di bestiami”.

Di lui, del Cesanese, un secolo prima aveva parlato anche il letterato locale Rutilio Scotti attribuendo a questo vitigno addirittura in grado di “resuscitare la morte in ciascuno homo”. Convinzione dettata dal fatto che, per secoli i medici ne consigliavano il consumo come beneficio medicamentoso. Argomento ancora oggi oggetto di studio e dibattito.

Storicamente è nel 1825 che il Cesanese viene citato genericamente. E’ lui il vitigno “atto a produrre un vino generosissimo, acini sferioidi, azzurri, nerastri”. L’aggettivo “nero” sarà introdotto nel 1877 e sarà undici anni dopo che quello di Affile otterrà la distinzione da quello Comune.

 

Vitigni dimenticati, il Cesanese d’Affile: da vino d’élite a semplice bottiglia di casa.

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Possibile perdere un patrimonio così grande? Sì, quando le epoche chiedono una rottura con il passato. Ma il passato lascia sempre qualcosa di sé. Una volta ricostituito un nuovo vivere, una volta consolidatasi una nuova epoca, quel passato torna a bussare per ritrovare nel nuovo il “vecchio” posto che ha sempre occupato.

Il recupero della memoria è un passo dovuto dopo ogni trasformazione. E quel cambiamento può venire solo dai custodi di quella stessa memoria. Custodi che non sono necessariamente anziani, ma anche giovani capaci, esploratori di un mondo quasi dimenticato che hanno voglia di riviverlo, riscoprirlo e riproporlo.

E’ grazie a questi custodi, uno in particolare, che il Cesano d’Affile è tornato a maturare sulle verdi e alte colline di quel lembo di terra della valle dell’Aniene protetto dai Monti Ernici e i Monti Simbruini. Questo custode del tempo ha un nome: Federico Alimontani. E’ stato lui, con altri pochi pionieri della zona, a riportare luce su quelle vigne protette da boschi di castagni, querce, carpini ed elcini. Così come la natura le ha custodite dai cambiamenti umani, così un uomo le ha riportate e vivere.

 

Vitigni dimenticati, il Cesanese d’Affile: il recupero della memoria e la sua nuova vita.

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Federico Alimontani fonda la cooperativa che oggi conta 60 soci e che nel 2004 ha visto le prime 3mila bottiglie di un sogno riposare in cantina. Alcune vigne ricomprate. Una nuova impiantata. Così il “Progetto per il recupero e il rilancio del Cesanese di Affile” nato nel 2003 si è concretizzato. La Doc è stata salvata. Il vitigno è tornato agli antichi fasti. Un vero successo. Testimoni lo sono, ad esempio, i Quattro Grappoli Bibenda al Gaiano e Le Cese de Le Colline di Affile. L’azienda nata nel 2003 grazie a Federico Alimontani e altri pochi coraggiosi.

Passione e volontà. Il recupero di una memoria storica richiedono poche, ma grandi cose. Ci vuole carattere. Lo stesso dell’unico autoctono a bacca rossa di tutto il Lazio.