Marco Graziano, erede di una grande tradizione, è tra i pochi artigiani del legno rimasti. Di lui ha parlato il Corriere della Sera. Il fascino di una tradizione che merita di essere riscoperta

Come in ogni favola che si rispetti potremmo iniziare questa storia con il classico “c’era una volta il bottaio”. Un binomio antico. Uomo e legno. Questo materiale, che si è rischiato persino di dimenticare, ha segnato tutta la storia dell’umanità. E con la sua anche quella dell’enologia. Le tecnologie hanno modificato non poco le cantine, ma il fascino del legno è rimasto immutato nel tempo. La botte, da oggetto della quotidianità, è diventata una vera e propria eccellenza. Almeno quando, di questa, parliamo in termini di artigianalità. Se il fiasco si è trasformato in un oggetto cult, la botte continua ad essere un oggetto di bottega. Il pregio e il riconoscimento che si è guadagnato nel tempo è tutto nelle mani di chi, il legno, lo lavora. 

Perdere questo patrimonio significherebbe perdere molto di noi e della nostra storia. A Voghera Marco Graziano è l’ultimo bottaio. Nelle sue mani la storia di una tradizione che andrebbe tramandata. La sua storia l’ha raccontata il Corriere della Sera in un articolo a firma di Ermanno Bidone.

 

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L’ultimo bottaio di Voghera: «Così mi prendo cura del vino»

Marco Graziano è l’erede di una tradizione familiare iniziata nel 1882. «Dopo la crisi degli anni Ottanta le aziende enologiche hanno capito l’importanza del legno»

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Che si brindi francese o italiano, molto del vino che scorrerà sulle tavole imbandite di Capodanno sarà passato dalle botti «curate» da Marco Graziano, 48 anni, l’ultimo discendente di una storica casata di bottai e il primo, dopo quattro generazioni, a non chiamarsi Giovanni. Questo era il nome del papà, del nonno e del bisnonno che, nel 1882 a Valenza, fondò un’azienda destinata a diventare un punto di riferimento: «Siamo gente che dà un colpo al cerchio e uno alla botte», scherza Marco, che in mezzo alle botti ci è nato e cresciuto. Anche durante gli studi in giurisprudenza, tra un esame e l’altro, lavorava nel laboratorio di via Oriolo. «Continuare è stato naturale, anche se mio padre la pensava diversamente».

 

Papà Giovanni la crisi iniziata negli anni ‘50 l’aveva vista da vicino.

Fino ad allora la botte era il contenitore per eccellenza e qualsiasi cosa si dovesse trasportare, dai chiodi all’olio, finiva dentro un barile di legno. «L’attività era talmente florida che ai primi del ‘900 il mio bisnonno aprì un ufficio a New York: con il proibizionismo grandi quantità di doghe smontate dopo i sequestri lasciavano gli Stati Uniti per essere rilavorate da noi». In tempo di guerra, la Graziano, che si era spostata a Busalla (Genova), lavora a ritmo serrato per fornire all’esercito botticelle da soma per i muli. Poi l’azienda approda a Voghera, ma inizia una crisi che sembra inarrestabile.

Con l’avvento della plastica la produzione di recipienti generici va a picco e negli anni 70 entra in difficoltà anche quella specifica per il vino. «Le vasche in cemento, vetroresina o acciaio erano più pratiche. Sembrava la fine di tutto. A scomparire non sono stati solo stabilimenti, ma anche botteghe artigiane che assicuravano la manutenzione».

 

Ma quella, più che la fine, era l’alba di una stagione nuova.

«Da contenitore la botte diventava strumento enologico. Le prime a ritornare, verso metà anni Ottanta, sono state le barriques da 225 litri. Poi i più grandi tonneaux e, negli ultimi anni, anche tini fino a 30 ettolitri. Le aziende hanno capito l’importanza del legno: oltre a cedere tannini e sostanze aromatiche, permette la micro ossigenazione e la maturazione del vino».

 

Il settore è in crescita e oggi Marco è un «medico» delle botti richiestissimo, con pazienti che lo aspettano in tutta Italia.

Dall’Oltrepo alla Valtellina fino a Veneto, Piemonte e Toscana non è raro vederlo entrare di buon’ora dentro alle botti per l’«asciatura», con cui elimina i depositi di tartrati dalle pareti e permette al vino di tornare a «respirare». Altre volte deve sostituire doghe o fondi danneggiati o «ritostare» a fuoco di legna le barriques che gli vengono spedite a Voghera. «L’auspicio per l’anno nuovo? Tornare a produrre e vedere ancora nelle cantine il nostro marchio con la foglia di quercia».

 

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